• Manifesto per la soppressione dei partiti politici – Simone Weil

    Qualche settimana fa al Salone del Libro di Torino mi sono imbattuta nel catalogo di una casa editrice che preannunciava la ristampa del MANIFESTO PER LA SOPPRESSIONE
    DEI PARTITI POLITICI di Simone WEIL (testo
    pubblicato per la prima volta nel numero 26 della rivista francese “La Table
    Ronde” del 1950). È stata una folgorazione. Ho trovato quel breve testo in
    internet e ho pensato di metterne qualche assaggio perché può essere un’utile lente per
    leggere la nostra situazione attuale… e per capire come dagli anni Trenta del
    Novecento a oggi, il sistema dei partiti politici abbia invaso tutta la nostra
    società riducendo drasticamente la nostra capacità di pensiero e di conseguenza la nostra azione.

    Voglio condividere con voi qualche passaggio di questo scritto per la sua allarmante attualità e per la grazia con cui Simone spiega l’effetto che i partiti politici hanno sulla nostra società e su di noi.

    Secondo la Weil il totalitarismo è il peccato originale dei
    partiti. I partiti nel continente europeo sono nati come eredità del Terrore
    (il club dei giacobini francesi in precedenza era un luogo di libera discussione) e dall’influenza
    dell’esempio inglese (dove tuttavia è presente un elemento di gioco e di sport aristocratico
    che noi continentali non possediamo). 



    Scrive Simone “Il fatto che i partiti oggi esistano non e’
    in alcun modo un motivo per conservarli. soltanto il bene e’ un motivo
    legittimo di conservazione. Il male dei partiti politici salta agli occhi. La
    questione da esaminare e’ se ci sia in essi un bene che abbia la meglio sul
    male e renda cosi’ la loro esistenza desiderabile.”

    Per Simone i caratteri essenziali di un partito politico sono tre:
    – è una macchina per fabbricare passione collettiva (quindi un impulso al crimine e alla menzogna – come diceva Rousseau)
    – è un’organizzazione costruita in modo
    da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri
    umani che ne fanno parte
    – il fine primo, e in ultima analisi, l’unico fine di
    qualunque partito politico è la propria crescita, e questo senza alcun limite

    Per
    via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e
    nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli
    che lo circondano non lo sono di meno. Inoltre è vago rispetto alla sua dottrina poiché la dottrina non è una merce collettiva. I
    l partito si trova quindi, per effetto dell’assenza di pensiero, in un continuo stato d’impotenza, che attribuisce sempre all’insufficienza del potere di cui dispone. Se anche fosse padrone assoluto del paese, le necessità internazionali gli imporrebbero limiti troppo ristretti. Diventa inevitabile che il partito sia esso stesso stesso il proprio fine. E così la
    tendenza essenziale dei partiti è totalitaria, non solo relativamente a una
    nazione, ma relativamente al globo terrestre. Poiché 
    la
    concezione del bene pubblico propria all’uno o l’altro partito è una finzione,
    una cosa vuota, irreale, che essa impone la ricerca della potenza totale.
     E’ per questo che c’è affinità, alleanza, tra il
    totalitarismo e la menzogna. 

    La crescita del partito diventa l’unico desiderio: se quest’anno ci sono tre membri in più dell’anno scorso, o
    se l’autofinanziamento ha permesso di raccogliere cento franchi in più, si è contenti. Mai si potrebbe concepire che il loro partito possa avere in
    alcun caso troppi membri, troppi elettori, troppo denaro. La crescita materiale del partito diviene l’unico criterio
    rispetto al quale si definiscono in ogni caso il bene e il male. Esattamente
    come se il partito fosse un animale all’ingrasso, e l’universo fosse stato
    creato per farlo ingrassare.

    Nel momento in cui la crescita del partito costituisce un
    criterio del bene, ne consegue inevitabilmente una pressione collettiva del
    partito sui pensieri degli uomini. Questa pressione, in effetti, esiste. Viene
    mostrata pubblicamente. E’ ammessa, proclamata. Questo fatto ci farebbe orrore
    se l’abitudine non ci avesse talmente induriti. I partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente
    costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e
    della giustizia. La pressione collettiva è esercitata attraverso la propaganda, la persuasione, non la comunicazione della luce. I partiti parlano, è vero, di educazione nei confronti di
    quelli che sono venuti a loro: simpatizzanti, giovani, nuovi aderenti. Questa
    parola è una menzogna. Si tratta di un addestramento che serve a preparare
    l’influenza ben più rigorosa esercitata dal partito sul pensiero dei suoi
    membri.

    Se un uomo, membro di un partito, è risolutamente deciso ad
    essere fedele in ogni suo pensiero unicamente alla luce interiore e a
    null’altro, non può far conoscere questa risoluzione al suo partito. E’
    allora, di fronte a esso, in stato di menzogna. Questa situazione non può essere accettata che a
    causa della necessità, che obbliga a entrare in un partito per prendere parte
    efficacemente agli affari pubblici. 
    Se mi appresto a dire, in nome del mio partito, cose che
    stimo contrarie alla verità e alla giustizia, lo indicherò con un avvertimento
    preliminare? Se non lo faccio, mento. Se
    l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna,
    l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male.

    Ma allora questa necessità è un male, e
    bisogna mettervi fine sopprimendo i partiti.

    E’
    impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica
    prestando attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la
    giustizia, il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si
    conviene a un certo membro di un raggruppamento. N
    essuna sofferenza attende chi abbandona la giustizia e la
    verità, mentre il sistema dei partiti comporta le pene più severe
    per l’indocilità. Penalità
    che toccano quasi tutto: carriera, sentimenti, amicizie, reputazione, onore,
    talvolta addirittura la vita di famiglia.

    Quando
    in un paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose
    tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici
    senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. I
    n questo caso chi entra a far parte di un partito sarà preso da preoccupazioni che escludono
    quella per il bene pubblico. I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del
    quale, in tutta l’estensione di un paese, non uno spirito dedica un’attenzione
    allo sforzo di discernere negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la
    verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di
    coincidenze fortuite – vengono decise e intraprese soltanto misure contrarie al
    bene pubblico, alla giustizia e alla verità.

    Come aderire ad affermazioni che non si conoscono? E’
    sufficiente sottomettersi incondizionatamente all’autorità che le ha emanate (e questo meccanismo è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica, nella sua lotta contro l’eresia). Il movente del pensiero non è più il desiderio
    incondizionato, indefinito, della verità, ma il desiderio della conformità a un
    insegnamento prestabilito.
    La nostra democrazia fondata sul gioco dei partiti, ognuno
    dei quali è una piccola chiesa profana armata della minaccia della scomunica.
    L’influenza dei partiti ha contaminato l’intera vita mentale della nostra
    epoca. E Simone scrive negli anni Trenta!!! Figuriamoci fosse viva oggi cosa direbbe… Chi
     che aderisce a un partito ha verosimilmente visto
    nell’azione e nella propaganda di quel partito cose che gli sono parse giuste e
    buone. Ma non ha mai studiato la posizione del partito relativamente a tutti i
    problemi della vita pubblica. Entrando a far parte del partito, accetta
    posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito.
    Quando, poco a poco, conoscerà le posizioni che oggi ignora, le accetterà senza esaminarle.


    Entrare in un partito significa adottarne docilmente la disposizione d’animo. E’ una posizione così confortevole! Perché equivale a non pensare! 

    La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra
    proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal
    punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo
    stato puro. E’ perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre,
    a livello pratico, che effetti positivi.

    Questa soppressione estenderebbe la propria virtù di
    risanamento ben al di là degli affari pubblici. Perché lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa. In un paese le istituzioni che determinano
    lo svolgersi della vita pubblica influenzano sempre la totalità del pensiero,
    a causa del prestigio del potere. Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun
    ambito, se non prendendo posizione “pro” o “contro” un’opinione e cercando
    argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino. E’ esattamente la
    trasposizione dell’adesione a un partito.

    Come, nei partiti politici, esistono democratici che
    ammettono diversi partiti, allo stesso modo nell’ambito delle opinioni le
    persone di ampie vedute riconoscono un valore alle opinioni con le quali si
    dicono in disaccordo. Significa aver perso completamente il senso stesso del
    vero e del falso. Altri, una volta presa posizione per un’opinione, non
    accettano di esaminare nulla che le sia contrario. E’ la trasposizione dello
    spirito totalitario. Quasi dappertutto l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro
    o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero. Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti
    politici e si è espansa, attraverso tutto il paese, alla quasi totalità del
    pensiero.

    Non è certo che sia possibile rimediare a questa lebbra che
    ci sta uccidendo, senza cominciare dalla soppressione dei partiti politici.






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  • Qual è la riforma del lavoro che veramente vogliamo? (omaggio a Simone Weil)

    In questi giorni telegiornali e quotidiani ci riempiono di un’ansia che culminerà con il tanto atteso (?!) accordo sulla riforma del mercato del lavoro. Atteso da chi? sarebbe la prima domanda … a cui facilmente si può rispondere atteso da tutte le parti in gioco (politica, sindacati, lavoratori, lavoratrici, aspiranti lavoratori e aspiranti lavoratrici). Anche dall’estero – ci dicono – guardano con attenzione ciò che accade in Italia… Più che sull’attesa, che dò per scontata, vorrei concentrare l’attenzione sul tipo di relazione che si crea tra le varie parti in gioco. Ci sarà uno scontro basato sui rapporti di forza o si penserà veramente al benessere delle persone?

    Qualche tempo fa ho letto il libro di Simone Weil, La prima radice. Alcune considerazioni relative allo sradicamento operaio sono una lente di ingrandimento rispetto a ciò che succede oggi.

    Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. E’ tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. A ogni essere umano occorrone radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasti tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente.

    La condizione del salariato – completamente e perpetuamente legata al denaro – costringe ad essere sempre tesi mentalmente alla busta paga operando uno sradicamento morale delle persone. I salariati sono esiliati e poi riammessi di nuovo, quasi per tolleranza, come carne da lavoro. La disoccupazione è uno sradicamento alla seconda potenza perché le persone non si sentono in casa propria né in fabbrica, né nelle loro abitazioni, né nei partiti e sindacati che si dicono fatti per loro, né nei luoghi di divertimento, né nella cultura intellettuale.

    Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o che lo sono solo in parte.

    Che cosa giova agli operai ottenere con le loro lotte un aumento dei salari ed una disciplina meno dura se contemporaneamente in qualche ufficio, gli ingegneri, senza alcuna intenzione malvagia, inventano macchine destinate ad esaurirli corpo ed anima o ad aggravare le difficoltà economiche? Che cosa servirebbe loro la nazionalizzazione parziale o totale dell’economia, se lo spirito di quegli studi non mutasse? Finora i tecnici non hanno mai avuto altra finalità oltre quella delle esigenze produttive. Se cominciassero ad avere sempre presenti allo spirito i bisogni degli operai, tutta la tecnica produttiva dovrebbe a poco a poco essere trasformata.

    Chi cerca di compiere dei progressi tecnici dovrebbe avere continuamente fissa nel pensiero la certezza che, fra tutte le carenze che ci sono nella produzione, lo sradicamento operaio è quella più diffusa. La materia esce nobilitata dalla fabbrica, gli operai ne escono avviliti. Si può porre rimedio a questa situazione? Questo pensiero dovrebbe far parte del sentimento del dovere professionale e di quell’onore professionale che chiunque abbia compiti di responsabilità in un paese e in un’industria dovrebbe possedere.

    Uno dei doveri essenziali dei sindacati operai, se ne fossero capaci, sarebbe quello di far penetrare un’idea simile nella coscienza universale. Se la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici diventasse pressapoco felice, non pochi problemi apparentemente essenziali e angosciosi sarebbero non solo risolti, ma aboliti. L’infelicità è un brodo di coltura per falsi problemi. Fa nascere ossessioni. Il mezzo per placarle non è di dare quel che esse pretendono, bensì di far sparire l’infelicità.

    Ora io mi chiedo: perché pensieri come quelli di Simone Weil non sono alla base dei nostri ragionamenti sulla società? Perché rimane confinata tra poche persone – soprattutto donne – e non viene citata, ripresa, adattata all’oggi? Che almeno questo post le possa fare da cassa di risonanza, piccolo contrappeso alla stazza degli altri filosofi che infestano la politica e le relazioni tra le persone.

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